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Progettare per non essere progettati, Enrico Versari

Progettare per non essere progettati

In occasione del secondo appuntamento del festival dell’arte contemporanea, svoltosi tra il 17 e il 19 aprile di quest’anno a Faenza, la nuova aula Magna dell’ ISIA ha ospitato la conferenza di Enzo Mari, intervistato da Barbara Casavecchia sul rapporto tra arte e design. Mari si è mostrato da subito molto preoccupato della situazione contemporanea artistica e progettuale e pone immediatamente una distinzione netta tra arte e design, identificando quest’ultimo come funzionale ai bisogni pratici della collettività; che oramai predilige uno “styling” frivolo e condizionato da logiche di mercato, che produce bisogni piuttosto che strumenti utili, invadendo il nostro spazio vitale e innalzando catene montuose di inutili rifiuti. Per quanto riguarda l’arte contemporanea Enzo Mari, salvo rare eccezioni, non è entusiasta del panorama attuale, degradato e dettato esclusivamente da logiche di mercato, rivestito da un’ apparente aurea di ricerca ma assolutamente povero di contenuti. Ma quali erano gli intenti di un tempo del “Savonarola” del design contemporaneo? Per quale motivo da artista si tramutò in designer? Da molti definito la “coscienza del design italiano” Enzo Mari, nato a Novara nel 1932, per motivi economici interrompe presto gli studi e comincia, nel dopoguerra, a lavorare come falegname e montatore di stand fieristici. Nel 1952 s’iscrive all’accademia di Brera dedicandosi alle ricerche sulla percezione visiva e affinando la propria metodologia progettuale, non finisce gli studi ma prepara comunque una tesi, dal taglio polemico, che tratta dei diversi modi di piantare i chiodi. Il dibattito artistico imperante negli anni del suo esordio era tutto rivolto al confronto tra arte informale e neorealismo e i lavori di Mari, pur rimanendo estranei a tali discussioni, risentirono fortemente di quel clima sperimentale e le caratteristiche materiali, assolutamente eterogenee, delle opere da lui realizzate, andavano a stimolare la totalità dell’apparato sensoriale.
Le opere di quel periodo possono dirsi veri e propri modelli scientifici di conoscenza estetica. I lavori si presentano come strumenti di ricerca, volti all’analisi dei fenomeni percettivi, con l’intento di creare linguaggi semplici e comprensibili da ognuno. Il problema di Mari è un problema gnoseologico, sull’analisi della conoscenza in quanto tale e sull’essenza intima di essa. L’attività creativa è per Mari un processo che serve a costruire un linguaggio, gli oggetti creati tramite essa sono il messaggio stesso che per essere afferrato necessita di un alfabeto semplice e riconoscibile. Enzo Mari che più che designer o artista si definisce “operatore estetico” è un progettista dal senso etico che tenta di estendere il progetto ad ogni campo possibile, dalla progettazione delle cosiddette “opere d’arte” passa a quella degli oggetti, annullando le contraddizioni, agendo politicamente attraverso la sola elaborazione formale e attraverso gli oggetti progettare la società intera volendola più consapevole e attenta. Il design è per lui un’attività posta al centro di grandi questioni etiche e sociali, gli oggetti d’uso entrano nelle case di tutti e con loro portano messaggi estetici capaci di rinnovare una società intera, il vero Pop italiano fu il design di quel periodo! Del resto la totalità degli oggetti che ci circondano sono progettati, e si sa che la qualità formale del mondo delinea le caratteristiche comportamentali della collettività. Il Mari di oggi è deluso, non tollera le strategie di marketing che definisce degradanti e ridotte alla pura psicologia della vendita, per un mercato saturo e bramoso che è alla ricerca di nient’altro che novità appetibili e oggi secondo lui non avrebbe più senso progettare alcunché. Tutto rientra nel meccanismo del consumo in cui la sola cosa che importi non è la motivazione interna alla ricerca, bensì il prodotto finito che deve avere solamente l’apparenza di essa. La grande concorrenza tra gli artisti, a suo avviso, li porta ad agire per mezzo di linguaggi sperimentali assolutamente personali, col risultato di ottenere messaggi indecifrabili che generano una situazione di incomunicabilità e il destinatario che, nelle intenzioni dell’artista, dovrebbe essere la società intera continua ad essere, suo malgrado, la borghesia. Il design, rivelandosi alla moltitudine, deve mostrare le sue caratteristiche primarie instaurando un dialogo con parole chiare e ben riconoscibili. Per Mari la professione dell’artista e tutte quelle ad essa collaterali dovrebbero elaborare modelli utilizzabili ai fini di un rinnovamento generale denunciando la precedente situazione ed agendo, con uno sforzo collettivo, in vista di un’uguaglianza sociale, attuabile esclusivamente attraverso possibilità di conoscenza uguali per tutti. Le scuole sarebbero quindi i nuovi intermediari e dovrebbero assomigliare a veri e propri templi di ricerca la quale si dovrebbe espletare per mezzo di una metodologia visibile, come il libro di Mari “Funzione della ricerca estetica”, del 1975, che spiega i procedimenti del progetto e le motivazioni interne ad esso. La cultura del progetto va stimolata approfondendo tutte le componenti che la coinvolgono; non importa per chi, l’importante è il come progettare, il progetto è ricerca, l’oggetto non importa, solamente la ricerca deve essere comunicata. Mari, come Pasolini, rimpiange la dignità perduta delle culture contadine, la povertà decorosa distrutta nelle periferie del consumismo.
Enzo Mari è convinto che il progettista debba scavare nel profondo ricercando gli elementi essenziali di un sapere antico, archetipico, presenti nella coscienza di ognuno, evitando le tecnologie avanzate e prediligendo il modo materiale con le sue regole semplici e basilari.
Agli inizi degli anni Settanta per far sì che il progetto potesse essere compreso a fondo Mari invitò gli utenti a costruirsi direttamente gli oggetti primari delle proprie abitazioni: tavoli, letti, armadi, sedie e così via. La sua “proposta per un’auto progettazione” era contenuta in un libretto in cui venivano consigliate diverse tipologie d’arredo, costituite da materiali semplici, assemblabili senza complicazioni da chiunque, gli intenti di un tempo erano quelli di ideare oggetti poco costosi che potessero entrare nelle case di chiunque; ma oggigiorno, anche le provocazioni più forti, considerate opere d’arte, sono mercificate a prezzi esorbitanti, le sue comprese. Un’insoddisfazione latente ha da sempre accompagnato il mestiere di Mari consapevole del fatto che, mentre un tempo si cercavano di risolvere problemi concreti per una società che chiedeva aiuto, oggigiorno non è più possibile adoperarsi in maniera proficua per essa, perché il progettista si trova nella frustrante condizione di definire solamente “oggetti apparenti”, oggetti che servono esclusivamente ad alimentare il mostro del consumismo che divora in un boccone e senza masticare tutto ciò che trova dinanzi a sé.
Ma il motto di Mari è ancora attuale: il modo migliore per evitare di essere progettati è, nonostante tutto, continuare a progettare!

“Il Falco Letterario”, estate 2009

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